Per questa prima uscita dopo la pausa estiva, ospitiamo un contributo di S. E. Ambrogio Spreafico, vescovo della diocesi di Frosinone-Veroli-Ferentino.

Si tratta di una riflessione di grande profondità e attualità, dal momento che affronta temi e problemi legati da un lato al ruolo del singolo e della collettività in relazione all’ambiente e al corretto rapporto con esso, e dall’altro lato alla concretezza e autenticità delle relazioni umane.

Di questo denso articolo, che ci auguriamo possa dar luogo ad un proficuo scambio dialettico con i lettori, siamo particolarmente grati al vescovo Ambrogio.

Connessi o isolati?

di Ambrogio Spreafico

Siamo in un tempo difficile, dove forse abbiamo compreso più profondamente che siamo tutti connessi e che le azioni anche di uno solo influiscono su quelle degli altri. Basta vedere i dati della diffusione repentina della variante Delta, a volte per l’inconsapevolezza di alcuni che danneggiano la vita di molti. Il Covid-19 ci ha resi, forse e finalmente, più consapevoli che nella globalizzazione nessuno si salva da solo. Solo gli arroganti e coloro che sono prigionieri dell’io, pensando di essere liberi perché fanno quello che vogliono senza alcun interesse per gli altri, credono di poter vivere non tenendo conto che non sono gli unici abitanti del pianeta.

Siamo in un mondo di biodiversità, che continua a vivere perché la biodiversità, la differenza degli elementi del creato, rendono la vita possibile a tutti, esseri umani e non. Il pianeta Terra vive anche perché c’è il sole, che rende possibile la vita. Se si esaurissero il suo calore e la sua luce, la vita della terra potrebbe estinguersi. Se il mare si riempisse di plastica, probabilmente renderebbe impossibile la sopravvivenza ai suoi abitanti, pesci e piante (nel Pacifico c’è un’isola di plastica grande come la penisola iberica! Ma un’isola di plastica si sta formando anche nel mar Tirreno vicino alla Corsica, grazie solo a noi esseri umani!). Se le temperature continuassero a crescere e i ghiacciai a sciogliersi, città come New Orleans, New York e Miami, Venezia, Bangkok, Shangai, Mumbai, Sidney, potrebbero essere in parte sommerse dall’acqua. Se il fiume Sacco, che attraversa la nostra bella terra, continuasse nel suo processo d’inquinamento delle acque, la terra circostante non sarebbe più coltivabile, come lo è già in parte, e il mare si riempirebbe di scorie pericolose. Così sarebbero compromessi l’agricoltura e l’allevamento, con grave danno per la vita degli animali e dell’uomo. Se, per la sete di risorse e la barbarie del possesso e di un presunto benessere, si continuasse senza scrupoli la deforestazione dell’Amazzonia, vero polmone delle Terra, o delle foreste tropicali o equatoriali, o se i criminali continuassero a provocare incendi boschivi anche nel nostro paese (che quest’anno hanno incenerito oltre 150 mila ettari di boschi), o si continuasse a cementificare le nostre città, rubando terreno all’agricoltura e ai boschi, ciò non farebbe che favorire l’impoverimento dell’ossigeno di cui abbiamo bisogno per vivere. In più ci avviamo anche alla estinzione di massa di un milione di piante e di specie animali, secondo il rapporto delle Nazioni Unite del 2019. 

La diversità riguarda anche gli esseri umani ed è visibile e palpabile, impossibile da nascondere. La storia personale di ognuno di noi, del nostro Paese come di tanti popoli o nazioni, è la conseguenza di incontri, scambi culturali e commerciali, migrazioni, anche guerre. Anche l’italiano è meticcio, risultato di incontri di popoli diversi, che sono venuti con la loro lingua, la loro tradizione e cultura, e arricchito dall’intreccio delle diverse parti del nostro stesso Paese. Questa è l’innegabile storia di ogni Paese. Solo pochissime popolazioni, come ad esempio alcuni popoli nativi dell’Amazzonia, sono ancora parzialmente estranee alla contaminazione di altre culture.

Anche noi essere umani siamo un mondo di diversità. La differenza struttura ogni società, io/l’altro, o, come direbbe Zygmunt Bauman “noi” vs “loro” : “Tutte le tappe e le fasi della storia dell’umanità hanno avuto un denominatore comune: erano caratterizzate da un lato dell’inclusione e dall’esclusione dall’altro. Si è generata un’identificazione reciproca, proprio attraverso inclusione ed esclusione. Il noi si poteva misurare con l’ostilità reciproca. Il significato del noi era che noi non siamo loro. E il significato di loro era che loro non sono noi… Direi che ci troviamo di fronte a un salto successivo che richiede l’abolizione del pronome loro” (in: La luce in fondo al tunnel. Dialoghi sulla vita e la modernità, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2018, p. 44-45). 

“Io” non sono l’unico abitante del pianeta Terra. C’è anche “l’altro”, l’uno o i molti diversi da me, perché ogni individuo porta in sé stesso una diversità che non è omologabile a nessuno. Nella diversità c’è una dignità, come direbbe Jonathan Sacks, ma anche una ricchezza. Scrive Sacks: “Dio crea tutte le persone secondo la stessa immagine – la sua immagine – e ciascuna è differente” (Mishna, Sanhedrin, 4,5). La sfida dell’immaginario religioso è vedere l’immagine di Dio in chi non rispecchia la nostra immagine. È il contrario del tribalismo, ma è anche qualcosa di diverso dall’universalismo” (La dignità della differenza. Come vivere lo scontro delle civiltà, Garzanti, Milano 2004, p. 72).

Se ognuno vedesse l’altro con questo sguardo, quante cose cambierebbero nelle relazioni e nelle parole che si dicono e si scrivono sui social, spesso affermazione prepotente di un “io” che non tollera differenze. “L’altro” o “loro” è ogni individuo e sono tutti. Nella società odierna si sta affermando un rifiuto dell’altro, chiunque esso sia, a cominciare da chi appare più lontano da noi o da chi si porta addosso una sorta di condanna, mai dichiarata, ma condivisa spesso da molti tanto da diventare in alcune fasi storiche patrimonio della maggioranza. La pandemia non ha fatto che accentuare questo rifiuto invece di aiutare a connetterci con gli altri. Sono quegli stessi pregiudizi che sono diventati la premessa di tanti disastri e di orribili tragedie, come il genocidio dei cristiani nella Prima guerra mondiale in Turchia o l’eliminazione di sei milioni di ebrei e di 500 mila zingari, assieme a molti “altri”, nella Seconda guerra mondiale nei campi di sterminio nazisti. La storia dimostra che il rifiuto dell’altro può portare tragiche e imprevedibili conseguenze. Razzismo, antisemitismo, esclusione dell’altro, sono i prodromi di tante tragedie che portano alla morte.

Il dramma ambientale – perché ormai è un dramma quanto sta avvenendo nell’ambiente in cui viviamo – è quindi anche un dramma umano, il dramma di un mondo di donne e uomini che faticano a vivere insieme la loro diversità e che si costruiscono gruppi tribali (off o on line fa lo stesso!), per cui la differenza non è una ricchezza, ma motivo di contrapposizione, di esclusione e persino di odio. L’inquinamento ambientale va di pari passo con l’inquinamento umano e spirituale. Così l’inquinamento progressivo e inarrestabile dell’aria, delle acque e della terra, nonché dell’universo (pensate solo a quanto i satelliti si lasciano dietro in scorie che diventano sempre più pericolose!) non farà che accelerare il deperimento della esistenza degli esseri viventi, siano essi esseri umani, animali, piante o altro. Abbiamo visto recentemente quanto è avvenuto con l’uragano IDA negli USA, dove la furia delle acque ha distrutto e sommerso luoghi, case, provocando morte. Forse sarò ritenuto un pessimista. Non lo sono, ma preoccupato sì. Quando passeggio a volte sui nostri bei sentieri di montagna, mi stupisce vedere rifiuti di ogni genere abbandonati ai bordi dei sentieri o tra i boschi, oppure nelle piazzole di sosta della superstrada per Sora o qua e là. Mi chiedo: ma perché questo sfregio alla bellezza? Quel bosco, quel pezzo di terra della nostra città, non sarebbe qualcosa di prezioso anche per chi compie questo scempio? Ricordiamoci sempre che chi non ha rispetto dell’altro non ha rispetto neppure della terra in cui vive, e viceversa. Lo si vede con tristezza ogni giorno nella mancanza di cortesia, di gentilezza, di preoccupazione per il bisogno e il dolore degli altri, o nella rabbia e nel rancore, che poi esplode contro chiunque, a cominciare da chi abita con noi. Ma c’è anche chi si ribella a questo modo di vivere, che mette al centro se stessi. Ho incontrato giovani e ragazzi nelle scuole che hanno fatto della cura dell’ambiente un impegno per sé e per gli altri. Nel tempo difficile che viviamo è cresciuta la solidarietà. Donne e uomini si sono messi a disposizione per rendere meno difficile la vita di chi portava di più il peso della pandemia, dagli anziani soli o in istituto, fino ai senza fissa dimora o ai profughi, oppure a chi aveva perso il lavoro. Sono segni di speranza, che fanno bene a noi e all’ambiente che abitiamo e di cui, ricordiamoci, non siamo padroni assoluti, ma custodi. Mi auguro che questo impegno e questa sensibilità possano diventare la coscienza e l’impegno di tutti e anche la gioia del nostro essere insieme per il bene di tutti e non solo del mio. Ne va della nostra vita, della bellezza della nostra terra e del nostro convivere in pace e in armonia, ma ne va anche della nostra umanità!